di Giuseppe Caravita
Cosa accomuna oggi un pallone da calcio, una racchetta da tennis, una mano robotica, un film in cui il protagonista è un impeccabile orsacchiotto animato?
Capovolgete il vostro smartphone (se ne avete uno) e avrete un indizio. Dentro c’è un sensore MEMS di movimento (un accelerometro o un giroscopio, o spesso ambedue) che sente il cambio di posizione e avverte il telefonino di ruotare convenientemente l’immagine.
E’ quasi esattamente quello che succede nel pallone “smart” di Adidas, dotato al suo interno di un “modulo inerziale” (ancora accelerometro e giroscopio più una radio a bassa potenza) che rileva, millisecondo per millisecondo, la traiettoria del rigore e invia i dati a un processore locale che li “compatta” e spedisce via radio allo smartphone del ragazzo che ha calciato. Il quale può accorgersi che ha la stoffa per una Champions League, e, allenandosi, mettere tutte le sue prodezze su Facebook.
Analoga la racchetta: modulo inerziale nel manico ma anche un database dei colpi dei campioni, per confrontarsi e migliorare. Per passare poi a applicazioni in apparenza più serie, come robot industriali in cui gli arti (sensorializzati) sanno momento per momento la propria posizione, e la comunicano agli altri, coordinandosi a velocità e efficienza superiore alla cinematica centralizzata piena di cavi dei sistemi robotici correnti.
E non è tutto. Se applichiamo a un corpo umano una quindicina di moduli inerziali comunicanti, otteniamo un sistema sensoriale complesso capace di produrre i dati necessari per un intero modello dinamico del movimento di un corpo umano. In vari settori queste “tute” sono in uso, dall’industria fino, soprattutto, all’industria cinematografica. L’attore recita la sua parte, si registrano i suoi movimenti. E sul suo corpo virtuale viene poi applicata la “pelle digitale” di un alieno oppure di un dolce orsacchiotto. Fino a pochi anni fa sistemi di questo tipo, a telecamere o a sensori di origine militare, costavano diverse centinaia di migliaia di dollari. Oggi, con i moduli inerziali basati su sensori MEMS (micromeccanici) in silicio e prodotti su vasta scala il costo di questi moduli sofisticati sta scendendo di un ordine di grandezza e più. Vicini a una ben più larga diffusione.
Il bello, poi, è che questi moduli inerziali non vengono dalla Silicon Valley. Si chiamano iNEMO e sono progettati e prodotti a Cornaredo, Agrate, Crolles e Catania. Frutto di una traiettoria avviata da STMicroelectronics che l’ha portata a superare i tre miliardi di MEMS prodotti dal 2007 ai primi mesi del 2013.
Un po’ di storia
Come? Inventandosi un nuovo paradigma. I sensori di movimento (accelerometri, giroscopi, magnetometri, sensori di pressione) fino al 2005 erano dispositivi esclusivi (e costosi) per applicazioni professionali e industriali. Dalla Wii di Nintendo del 2006, la prima console con accelerometro incorporato, sono però entrati nei prodotti di consumo. Subito dopo è stata la volta dell’iPhone e praticamente di tutti gli smartphone. Risultato: volumi enormi, forti economie di scala, possibilità di miniaturizzare continuamente i sensori e ridurne i prezzi. Per STMicroelectronics, e in particolare per la sua divisione guidata da Benedetto Vigna, è una leadership secondo IHS di circa il 50% del mercato dell’elettronica di consumo mondiale conquistata fin dall’inizio, con la Wii, e poi tenuta saldamente.
Ma non bastava ai tecnologi ST. Un conto sono i singoli sensori destinati a un grande cliente, che abbia sofisticate capacità di ingegnerizzarli su minuscole board per telefonini. E un altro diffonderli tra piccole imprese, studenti, singoli innovatori.
E così, nel sito ST di Catania (System Lab) è partito nel 2009 il progetto iNEMO (acronimo per Inertial Module). Un team di cinque giovani progettisti si mise al lavoro su una piccola scheda dimostrativa che integrava accelerometro, due giroscopi, magnetometro, sensore di pressione, di temperatura, oltre a un processore centrale. Risultato: un sistema in grado di integrare ben dieci assi di movimento, accelerazioni, forze angolari (Coriolis), altezza, orientamento. E di processarne i dati in locale.

Ma è stato solo l’inizio. La prima versione di iNEMO è stata distribuita in 300 board di valutazione. Un buon successo. Ma l’anno dopo, con la seconda versione, fa la sua comparsa il concetto di “sensor fusion”, ovvero di un algoritmo a bordo (AHRS) capace di elaborare i dati grezzi dei singoli sensori, combinarli, correggere errori e fornire coordinate di orientamento precise. Questo algoritmo (basato sul filtro di Kalman) semplifica enormemente il lavoro per gli applicatori. Dal giugno del 2010 l’interesse cresce ancora sulla seconda versione di iNEMO: fino a 2000 board diffuse in 24 mesi. E così numerosi contest tra studenti universitari tenutisi con successo negli Usa, a Taiwan, in Cina Popolare, in Francia.
E ora, con la terza versione del modulo, arriviamo al salto di qualità industriale.
La tecnologia
Il System Lab di Catania, nato per risolvere problemi complessi di clienti particolarmente difficili, poi su dimostratori e tecnologie, oggi approda a una linea di prodotti a tutto tondo.
Sta per essere rilasciato un nodo inerziale completo con alimentazione e radio. Il modulo occupa circa 25×18 millimetri, con uno spessore che dipende dalla batteria. Meno di un pacchetto di fiammiferi. Un cubetto.
L’iNEMO di terza generazione, chiamato M1, sarà una micro scheda di 13 per 13 millimetri con a bordo nove assi (accelerometro, giroscopio, magnetometro) più la CPU. Abbastanza piccolo per entrare in un dispositivo portatile, una scatoletta, un attrezzo ginnico, l’alloggiamento di un velivolo amatoriale, nel fondo di un taschino.
“Siamo alla terza generazione. – dice Alessandro Faulisi, application team manager – Fino a qui abbiamo fatto board valutative, ma dall’M1 svilupperemo un prodotto venduto dalla divisione Analog and MEMS (AMS) di Benedetto Vigna. Con un’evaluation board attorno, la Discovery”.
“Oggi esercitarsi con un discovery kit, che ha al suo centro l’M1 significa lavorare su una piattaforma che ha tutte le chances di generare nuove applicazioni e nuovi prodotti. – aggiunge Faulisi – L’M1 ha il microcontrollore STM32, basato su core ARM. Un’architettura versatile e potente per applicazioni “smart”: dalla scarpetta Nike con accelerometro alla fascia che controlla il ritmo cardiaco”.
“La novità di M1 sta nell’essere una micro-board saldabile – aggiunge Alessandra Di Pietro, senior application engineer – Ovvero il cliente può saldarlo direttamente sulla sua board. Gran parte del design è stato già fatto. Sulla base dei nostri esempi applicativi il progettista può sviluppare il suo firmware e caricarlo sull’M1”.
Risultato: costi e tempi di sviluppo hardware drasticamente accorciati. Alla portata di startup e innovatori.
E poi il software.
“Tutto ruota intorno al trattamento delle informazioni dei diversi sensori e all’algoritmo di sensor fusion – spiega Ignazio Aleo, application engineer. – Nell’idea alla base del progetto M1, il microcontrollore dedicato elabora i dati dei sensori secondo i nostri diversi programmi. Per esempio: un magnetometro e un accelerometro assieme danno luogo ad una bussola.
Invece, accelerometro, magnetometro e giroscopio danno luogo al posizionamento tridimensionale di un oggetto. E in futuro si può pensare ad altro”.
Il progettista può quindi cominciare a usare la sua Discovery per valutare le performance del prodotto. “Perché noi non forniamo soltanto l’hardware ma anche il software e l’interfaccia grafica, con tutti i dati dei sensori. Poi può sviluppare intorno alla board la sua applicazione. Collegandola al pc tramite porta USB. E un ambiente di programmazione. E poi, dato che abbiamo documentato tutti i pin della board, connettere eventuali moduli o adapter – aggiunge Alessandra”.
Facciamo un esempio. La differenza nello sviluppo di un modulo di stabilizzazione per elicottero con la prima versione iNEMO e lo stesso con M1-discovery. Cosa cambia?
“Un progettista con iNEMO V1 valutava la fattibilità dell’applicazione e poi, per produrla, occorreva una progettazione da zero di tutto il sistema – dice Aleo – un processo piuttosto lungo. Ora invece le board di valutazione ci sono. In più è possibile realizzare direttamente l’applicazione utilizzando lo stesso M1, senza riprogettare il tutto. Quindi adesso il cliente, grazie a M1, può valutare immediatamente l’integrazione hardware e software dei vari sensori, che danno informazioni diverse sullo stesso fenomeno ma osservato da punti di vista differenti”.
C’è un trend di mercato piuttosto chiaro, al riguardo. I moduli inerziali sono al centro di progetti come quello dell’olandese Xsens sui movimenti del corpo, in vari smartphone, nella robotica e nei prototipi di orologi intelligenti.
“Le informazioni che vengono dai singoli sensori, infatti, cominciano a essere troppe ed eterogenee per essere analizzate singolarmente quando si vuole sviluppare un’applicazione complessa. – aggiunge Alessandra – In sistemi multinodo è bene cercare di definire degli stati di processing a cascata. Il primo avviene sul singolo nodo M1, per poi passare al nodo centrale detto concentratore. Un esempio è l’indoor navigation. Con il sensore di pressione per l’altezza e gli altri per l’orientamento all’interno di un modulo che trasmette al processore centrale di uno smartphone i dati già elaborati, senza caricarlo di lavoro. La comunicazione tra nodo sensore e concentratore può avvenire con una tecnologia radio a corta distanza Bluetooth Low Energy oppure per maggiori distanze, con SPIRIT1, il transceiver radio di ST che opera a frequenze sotto il gigahertz”.
Milioni di iNEMO negli Smartphone
L’altra faccia di iNEMO bisogna cercarla a Castelletto di Settimo Milanese, vicino Milano. Nei laboratori della divisione MEMS di ST iNEMO rappresenta un autentico “core” della presenza della divisione sul mercato.
Prendete infatti dieci dei marchi di smartphone di fascia alta. Dentro i loro apparecchi non solo vi sono accelerometri, giroscopi e altri sensori “Made in ST”. Ma anche, sempre più, microcontrollori e una piattaforma software, l’iNEMO Engine, per la fusione dei dati sensoriali e la loro elaborazione in informazioni complesse, fino all’esatta misura del posizionamento del telefonino a 360 gradi.
Milioni di smartphone di fascia alta che quindi si portano dentro una tecnologia ST sensoriale, hardware e software, sempre più sofisticata. E in fase di veloce evoluzione.
“Oggi i nostri clienti non ci chiedono più soltanto il sensore. Ma la soluzione completa, sensori più software più algoritmi. Altrimenti – dice Alberto Marinoni, application engineer per le applicazioni mobili – saremmo di fatto tagliati fuori dal mercato”.
L’area dell’iNEMO è quindi molto più complessa e ampia. E non si ferma alla sola board M1.
“Per noi sono tutti i combo, i moduli inerziali multiasse. Per esempio accelerometro e giroscopio insieme. iNEMO è già una famiglia di prodotti. E i nostri moduli ne fanno parte”.
“Qui lo sviluppo è andato, in un certo senso, in parallelo – spiega Andrea Labombarda, application engineer e specialista nel firmware – da un lato iNEMO ha preso la forma, a Catania, dell’evaluation board. Dall’altro, qui a Castelletto, il sistema di moduli è cresciuto direttamente per il mercato”.
Il percorso, lungo dieci anni, quasi lineare.
“Siamo partiti nel 2004 con i primi accelerometri. Poi abbiamo aggiunto al portafoglio prodotti i giroscopi. E rapidamente li abbiamo integrati su un singolo package – spiega Marinoni – I nostri clienti, nei cellulari, sono quasi paranoici per quanto riguarda consumi e spazio. Una soluzione integrata, oltre a costare meno in produzione dei due chip singoli, dà risultati evidenti di semplificazione e minore volume”.
Il passo successivo è stato quello di inserire, nel package, anche un microcontrollore. Un core ARM ottimizzato, a basso consumo, in grado di prendere in input i segnali grezzi dei sensori (ST e non) e di elaborarli in modo sofisticato. Per esempio distinguere, nel segnale misto dell’accelerometro, la gravità dall’accelerazione lineare.
“Ora abbiamo una board, per quanto piccola, con accelerometro e microcontrollore o con giroscopio e magnetometro in un package di 3 per 3 millimetri – dice Labombarda – Ma non siamo ancora soddisfatti. Il passo successivo è un singolo package con i componenti forse impilati. E poi arriveremo, su queste dimensioni, a tutti e nove gli assi. Fino a un single chip”.
“ST quindi ha oggi alcuni evidenti vantaggi – rileva Marinoni – Produciamo tutti i sensori Mems. E anche il microcontrollore. Padroneggiamo il packaging, il software e gli algoritmi. Quindi siamo in grado di realizzare i moduli a misura del cliente. In tutte le combinazioni. A differenza di altri che mancano vuoi del controllore vuoi del magnetometro”.
E qui entra in gioco l’iNEMO engine. Il “motore software” in grado di creare “sensori virtuali”, quale il posizionamento e l’orientamento assoluto. Ricavati dai dati grezzi dei singoli sensori MEMS.
“Un esempio – dice Marinoni – Google sta lavorando da tempo sulla contextual awareness. Ovvero vuol sapere in ogni momento dov’è ogni cellulare, cosa sta facendo, quindi conoscere le abitudini, gli usi. E fornire servizi su misura. I nodi della rete di sensori, così, diventiamo noi stessi. Basti pensare all’applicazione di Google per la misurazione del traffico. Quelle informazioni nascono dagli utenti. Se, con il mio telefono, sono fermo, in coda con altre 500 persone Google sa che in quel momento in quel punto c’è traffico. Ma non solo. Se punto il mio telefono su un monumento o su una vetrina immediatamente mi compaiono informazioni d’aiuto. Se lo punto al cielo appare l’applicazione per la mappa stellare. Tutto questo non è più la pura accelerazione del gesto o la velocità angolare. E’ un “sensore virtuale” a input multipli e elaborati che calcola orientamento e posizione. Senza un modulo intelligente non sarebbe possibile”.
Il punto è infatti che iNEMO Engine elabora da sé i dati del l’orientamento senza gravare sul processore centrale dello smartphone.
“E’ certamente meglio per i costruttori”.
Sensori virtuali, quindi. Quanto saranno rilevanti?
“Tutti ci stanno lavorando ed esistono già delle applicazioni che ne utilizzano i dati, – dice Labombarda – ma è una frontiera aperta, per esempio nel gaming ma anche nella vita quotidiana”.
E’ una frontiera su cui nasceranno di certo nuove idee. Ma cosa deve fare un innovatore per partecipare a questo gioco?
“Certo può sviluppare un’App innovativa – dice Marinoni – servendosi degli Sdk disponibili sia per Android che per Apple. Ma se vuole scendere più a fondo il nostro consiglio è di dotarsi di schede di sviluppo di laboratorio, che simulano uno smartphone e che utilizziamo anche noi, complete di una versione Android completamente aperta”.
“Non è un grande investimento – osserva Labombarda. – Costano 150 euro e l’unico sforzo sta nel connettere il modulo iNEMO M1 (oppure la Discovery Board) in modo da poter agire anche sui sensori, dato che la libreria iNEMO light (per M1) è completamente open. In questo modo – aggiunge Labombarda – il programmatore può modificare a suo piacimento ogni singolo driver. E generare un’applicazione finale più accurata”.
Alla fine del processo tutta la App può essere ricompilata per iNEMO engine Pro e due principali ambienti per gli smartphone. E può iniziare la sua corsa sui mercati.
“Certo, se avessi in mano l’idea di una bella App a misura dei nuovi sensori virtuali ci farei seriamente un pensierino – conclude Labombarda – la venderei a un euro. Però con la ragionevole attesa di un milione di clienti”.
Le opportunità
Che cosa bolle in pentola nell’area (nascente) dei prodotti sensorializzati? Molto, e qui di seguito proviamo a darne un elenco. Partiamo dallo spazio più vivace di primi prodotti e di progetti. Quello del Fitness.
Ad esempio il braccialetto FuelBand della Nike, il più conosciuto di una nuova classe di prodotti chiamati activity tracker. Il braccialetto, dotato di un accelerometro a tre assi, registra il movimento della persona e monitora passi, consumo di calorie e tempo. E avverte se si è troppo sedentari, si fanno troppo pochi punti-movimento rispetto all’obbiettivo prefissato.
Se il fitness “smart” sembra in rampa di lancio altrettanto si può dire degli orologi smart, dove è già in commercio l’orologio prodotto dalla Si14 veneta. Un prodotto, che ha battuto sul tempo tutti gli altri, e che si connette via bluetooth allo smartphone, per leggere Sms, avere notifiche, guardare email sul polso. Ma per l’Si14 è solo l’inizio. A fine anno infatti verrà la serie WearIt. Con versioni Wi-fi, Gps e combinate. Tanto fervore da parte dell’azienda italiana si spiega facilmente. Il mondo degli i-watch si sta rapidamente affollando. Ai nomi già in campo (Sony, Nissan, Pebble) stanno aggiungendosi pesi massimi come Apple, Microsoft, Samsung. Per quanto riguarda la prima il suo Ceo Tim Cook ha già mostrato un primo prototipo di i-watch a un meeting con gli analisti finanziari nello scorso febbraio. E i rumors parlano di un team di 100 sviluppatori al lavoro. Samsung ha già presentato il suo Galaxy Gear. E poi Google, che ha acquisito un anno fa la Wimm Labs, una startup focalizzata sul wearable. E infine Microsoft, che sta lavorando, ormai in modo avanzato, al suo prototipo.
Lasciamo l’elettronica da polso e andiamo più addentro nello sport, e in particolare nel calcio. Qui vale l’accoppiata dell’Adidas. Da un lato un pallone con all’interno un modulo inerziale, capace di campionare complete traiettorie di tiro e inviarle via radio. Dall’altro le scarpe dotate dello stesso modulo (MyCoach) che produce le coordinate di movimento dal lato del calciatore.
Di sicuro è però la modellizzazione del movimento del corpo umano (in tutto o in parte) una delle aree più complesse e avanzate oggi, per l’applicazione dei moduli inerziali.
Qui vale la collaborazione tra STMicroelectronics e la Xsens. Che già alcuni mesi fa aveva portato alla prima applicazione dei prototipi M1, piccoli nodi a scatoletta, completi di radio Bluetooth, distribuiti sul corpo di un atleta per presentare la nuova generazione di “tute” sensoriali.
“Xsens è un’azienda che lavora a livello mondiale sulla ricostruzione del movimento – dice Ignazio Aleo – con Hollywood, per esempio. E qui la possibilità di integrare direttamente l’algoritmo di sensor fusion (AHRS) ha stimolato il suo appetito. Xsens è stata la prima a utilizzare il modulo M1 con radio esplorando l’utilizzo di tecnologie cost-effective per la ricostruzione del movimento. L’obbiettivo infatti è di scendere da decine di migliaia a poche centinaia di dollari per una tuta”.
L’azienda olandese finora ha realizzato sistemi sensoriali per applicazioni high-end. I loro prototipi con M1 hanno però dimostrato che i sensori consumer di ST reggono bene il paragone, per qualità e affidabilità. Oltre a costare molto meno.
Risultato: sia Xsens sia ST sono interessate alla stessa prospettiva, oggi più vicina: una tuta (o 17 moduli variamente legati sul corpo) a prezzi da elettronica di consumo. Alla portata non solo di studios o di clienti industriali ma anche di singoli atleti. E anche a parità di qualità con analoghe tute professionali da centinaia di migliaia di dollari.
E poi le ricadute future: “Per i videogiochi, per la salute, per il controllo della postura e del movimento, per esempio il rilevamento della caduta di un anziano, con conseguente segnale di telesoccorso”, dice Faulisi.
Passiamo alla robotica. Questo non è un settore facile, soprattutto per i moduli sensoriali. Esistono normative stringenti di sicurezza del lavoro. E percorsi di certificazione che richiedono anni.
“L’aggiunta di un modulo inerziale su un braccio robotico si è dimostrato molto positivo – rileva Faulisi – Ora però si apre la fase di certificazione. Svariati anni. Il punto è far lavorare il robot sensorializzato in aree in cui operano persone. E qui vi sono requisiti di sicurezza molto stringenti”.
Più vicina è la prospettiva di robot più leggeri, semplici, veloci. In cui i moduli inerziali applicati sui vari segmenti del braccio comunicano tra loro e con il sistema centrale senza la necessità di un sistema cinematico unico che governa tutto.
“E’ la delocalizzazione del tradizionale controllo robotico centralizzato in un controllo distribuito – dice Claudio Iozzia, Senior Software Engineer – Qui vi sono risultati molto avanzati. Non c’è più un controllo complesso centralizzato che prende e invia le informazioni ai singoli pezzi del robot e ne elabora i risultati, ma si passa a una fase in cui il gomito robotizzato comunica con il polso: ogni nodo è dotato di “intelligenza” e quindi capace di controllare se stesso ed interagire con i nodi vicini. Il controllore centralizzato è una parte molto costosa. In questo modo si può semplificare il suo lavoro e fargli svolgere anche altre funzioni, come ad esempio l’interazione con l’ambiente esterno (esso stesso diventa un nodo di un sistema più complesso). Persino i cavi ed i vari connettori si possono semplificare: ad oggi rappresentano un costo rilevante nei sistemi robotici”.
E infine c’è il futuro prevedibile. “C’è una convergenza in atto tra integrazione di sensori, capacità di elaborazione, connettività wireless e in futuro energy harvesting – dice Adriano Basile, Technical Marketing Manager – Fino ad arrivare a nodi completamente autonomi. Nel caso del pallone “smart”, per esempio, si potrebbe pensare ad un generatore che sfrutta l’energia cinetica”.
Energy Harvesting. In primo luogo fotovoltaico.
“Reti di sensori boschivi con pannellini solari. Qui nasce la necessità di una soluzione come SPIRIT1. Con capacità di routing. E un raggio radio a più chilometri”.
Oppure sensori sul corpo connessi ai cellulari. Qui entra in gioco il Bluetooth low Energy, il protocollo radio a breve distanza e minimo consumo energetico.
“Dall’Iphone 4s in avanti gli Smartphone sono dotati di dispositivi Bluetooth smart ready, con chip che commutano automaticamente i protocolli. E lo stesso per gli iPAD, i Mac, ora anche Tablet Android. Tra un anno la conversione sarà in atto. E le reti personali abilitate”.
“Il trend è quello di aprire il mercato agli accessori. – dice Basile – Per esempio il portachiavi “find-me”, per trovare le chiavi di casa. Con un allarme se mi allontano troppo. Oppure l’orologio che dà informazioni sul jogging. Di idee in giro ce ne sono proprio molte”.
L’esempio forse più divertente: “Una carotina, appena realizzata da una startup spagnola, che si mette in una pianta, con un sensore di umidità, di temperatura, e due elettrodi per misurare la resistività del terreno. Compro la carotina, la inserisco nel mio vaso di gerani, scarico l’app, le dico qual è la mia posizione, dove mi trovo, che tipo di pianta è. E quando mi avvicino con il telefonino interrogo la carotina sullo stato di umidità, se ha bisogno di fertilizzante, l’app riceve i parametri e mi dà consigli, meno acqua, troppo sole”.
E infine lo sport di squadra. Come il football americano dove la start-up americana X2BIOSYSTEMS sta integrando nei caschi un modulo inerziale MEMS di ST e la radio Sub 1 GHz SPIRIT1. Risultato: trasmissione in diretta su Internet di tutte le azioni di gioco. E statistiche accurate sulle performance, ma soprattutto monitoraggio degli impatti violenti che possono arrecare danni permanenti al cervello.
La strategia STMicroelectronics
Da ottobre iNEMO cessa quindi di essere un esercizio hardware di valutazione (3000 board distribuite dal 2009 ad oggi) per divenire una famiglia di prodotti “System on Board”. Primo l’M1, il modulo miniaturizzato a nove e poi dieci assi insieme alla scheda Discovery per lo sviluppo.
Ma sarà, nei piani dell’azienda, solo l’inizio della prossima famiglia iNEMO. Più moduli con sensori e funzionalità diverse.
Non solo per il movimento ma anche per l’ambiente e per l’automazione. “Noi siamo andati finora nella direzione di aggiungere ad iNEMO dei nuovi sensori, ma sempre per il movimento – dice Nunzio Abbate, responsabile del System Lab di Catania – Ovvero sensori inerziali e intelligenza a bordo. Oggi siamo arrivati ai nodi autonomi con le radio integrate. E tra poco ci espanderemo ad altri moduli integrati, ma questa volta ambientali. Con la capacità di monitorare temperatura, anidride carbonica, illuminazione. Quindi il futuro della famiglia iNEMO sarà in una collana di nodi sensoriali, di smart sensor diversi”.
Una famiglia multisensoriale che in futuro si estenderà anche alla microattuazione. Fino a dispositivi smart integrati che rilevano i parametri dall’ambiente e comandano direttamente azioni. Oppure sistemi “indossabili”, dentro capi di abbigliamento che si modificano. Poltrone che si adattano al tuo corpo. E così via. E poi prolifereremo su altri tipi di sensori. Dovremo sviluppare nuovi protocolli e nuovo software per permettere la loro fusione e programmabilità e soprattutto consentire l’utilizzo semplice di queste tecnologie complesse ed integrate, senza l’intervento diretto dell’utilizzatore “umano”. Il cosiddetto “Machine to Machine”.